Quante volte abbiamo sentito dire che il bambino “brillante” di oggi sarà la grande mente di domani? È un’idea rassicurante: premiare chi eccelle, investire risorse nei talenti precoci, spingere verso la specializzazione precoce. Tuttavia, una nuova ricerca pubblicata su Science capovolge questa narrazione. Analizzando i percorsi di quasi 35.000 persone che sono diventate eccellenze mondiali in campi molto diversi — dalla scienza alla musica classica, dallo sport agli scacchi — emerge una verità controintuitiva: i migliori bambini raramente diventano i migliori adulti.
Questa ricerca non è un aneddoto isolato, ma una sintesi internazionale e interdisciplinare che confronta dati reali su chi, da adulto, ha raggiunto i vertici della propria disciplina. Il risultato è chiaro: le performance eccezionali in età giovanile non predicono in modo affidabile la grandezza futura e, in molti casi, sono proprio quei bambini che non si distinguevano particolarmente da giovani che, crescendo, raggiungono i più alti livelli.
Questo dovrebbe farci riflettere su come interpretiamo il successo precoce e su come strutturiamo il sostegno ai giovani. Per anni abbiamo operato con un modello implicito secondo cui scoprire e coltivare il talento il prima possibile fosse la chiave per formare futuri campioni e leader. Tuttavia, persino programmi strutturati di “talento precoce” rischiano di ignorare una realtà più profonda: i percorsi personali di eccellenza sono spesso lunghi, graduali e non lineari.
I ricercatori hanno identificato tre possibili motivi per cui chi esplora diversi campi e sviluppa competenze in più aree finisce spesso per eccellere di più — e più tardi — rispetto a chi si specializza troppo presto. In primo luogo, provare diverse attività aiuta a trovare il campo in cui l’individuo si sente realmente in sintonia, non tanto per una predisposizione genetica quanto per una questione di motivazione e preferenza. In secondo luogo, apprendere in contesti diversi accresce la capacità di imparare a imparare, costruendo una base di competenze più ampia su cui poggiare apprendimenti successivi. Infine, non fissarsi troppo presto su un’unica disciplina riduce i rischi di burnout e stagnazione, un aspetto cruciale soprattutto nello sport e nella musica.
Il messaggio è chiaro: non dovremmo idealizzare i “bambini prodigio”, né basare tutte le nostre scelte educative sull’identificazione precoce delle eccellenze. È più utile creare ambienti in cui gli studenti siano incoraggiati a esplorare, a sbagliare, a sviluppare interessi molteplici, e in cui sia riconosciuto che il percorso verso l’eccellenza può essere graduale e persino disordinato.
Questo non significa che non dobbiamo sostenere gli studenti che mostrano capacità particolari, piuttosto che dovremmo farlo senza rinchiuderli troppo presto in un’unica etichetta o in un percorso specialistico rigido. In pratica, possiamo offrire opportunità di esplorazione in diverse discipline, favorire l’apprendimento interdisciplinare e valorizzare le competenze trasversali, affinché i nostri studenti non si sentano obbligati a scegliere la loro strada troppo presto, ma siano invece messi nelle condizioni di scoprirla nel tempo.
In definitiva, questa ricerca ci invita a ripensare non solo come valutiamo il successo degli studenti, ma anche come costruiamo le nostre aspettative educative. Più che cercare di prevedere chi sarà un futuro “grande” adulto, il nostro ruolo potrebbe essere quello di nutrire curiosità, resilienza e capacità di apprendere nel lungo periodo. E forse, col tempo, scopriremo che il bambino che sembrava nella media era solo all’inizio di un sorprendente viaggio verso la grandezza.